Il “coniuge di fatto” per avere uguali diritti del coniuge deve obbligatoriamente avere la stessa residenza?
E’ questo il quesito sottoposto alla Suprema Corte.
Il caso riguardava la richiesta risarcitoria avanzata dalla signora per la morte del “coniuge di fatto”.
Nei primi due gradi di giudizio, i giudici avevano rigettato la richiesta, perché agli atti era risultato che la coppia non aveva avuto la stessa residenza, desumendo, di conseguenza, che non poteva esserci stata “convivenza”. Questo malgrado indizi altrettanto importanti avessero evidenziato una comunione di obblighi e di assistenza morale e materiale.
La Corte con sentenza n. 9178/2018 ha ribadito che la cosiddetta “famiglia di fatto” è quella in cui sussiste una “spontanea assunzione di diritti ed obblighi”.
In caso di sinistro perché al “coniuge di fatto” venga riconosciuto il diritto al risarcimento morale e materiale, occorre provare che “la relazione è caratterizzata da una tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale”. Prosegue ancora la Cassazione “se la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza”.
In sostanza la convivenza è solo un indizio di una eventuale convivenza di fatto e la mancanza non la esclude, dovendo valutare anche altri fattori.
La Legge n. 76/2016, che disciplina la convivenza di fatto, ha confermato il principio stabilito dalla Suprema Corte definendo conviventi: “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e da reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco”.
Nessuna indicazione viene fornita sulla coabitazione.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha ritenuto di coniare tale principio: “Si ha convivenza more uxorio, rilevante ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale”.
Se la coabitazione sicuramente facilita la prova dell’unione di fatto, l’assenza di essa non la esclude, dovendo provare a mezzo altri indizi una reciproca e volontaria assistenza morale e materiale, che evidenzi l’esistenza di una “famiglia di fatto”.