Con sentenza n. 74/2017 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in materia di mobbing. Lo ha fatto ampliando ulteriormente la fattispecie del “mobbing datoriale” ossia del mobbing posto in essere dal datore di lavoro, sebbene, nel caso in questione, le vessazioni fossero in realtà derivate dal comportamento dei colleghi. La Suprema Corte ha ritenuto, infatti, che anche il mancato intervento da parte del datore di lavoro, per dirimere una certa situazione lesiva per un proprio dipendente, può integrare la fattispecie del mobbing datoriale quando il datore è “rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che lo rendono possibili o le abbia addirittura determinate, considerato che anche l’aspetto umano fa parte dell’ambiente di lavoro nell’ambito del quale opera il dovere di protezione previsto dall’art. 2087 Codice Civile“.
E non solo! La Suprema Corte, con la sentenza in commento, è andata anche oltre, affermando che l’intento persecutorio può essere ravvisato anche in una serie di comportamenti che, presi singolarmente sono leciti, ma che in realtà nel loro insieme possono essere intesi come vessatori e contro il lavoratore, la sua salute e la sua dignità.
Era accaduto infatti che, oltre alle azioni persecutorie da parte dei colleghi, per le quali non erano stati adottati provvedimenti da parte del datore di lavoro, il lavoratore avesse lamentato di aver subito, in un breve lasso di tempo:
- un trasferimento da un reparto ad un altro;
- una richiesta di giustificazioni a causa dell’assenza dal lavoro;
- una contestazione disciplinare per il ritardo nell’invio del certificato medico;
- una revoca delle ferie;
- la negazione di permessi sindacali.
Comportamenti di per sé leciti, ma che nell’insieme evidenziavano delle vessazioni ed un disegno persecutorio anche da parte del datore di lavoro.
Il lavoratore aveva così adito il Tribunale e chiesto il risarcimento dei danni per l’insorta sindrome depressiva.
La società datrice di lavoro aveva motivato e giustificato come leciti i singoli comportamenti adottati nei confronti del dipendente.
La Suprema Corte, confermando le statuizioni dei precedenti Giudici, ha invece ritenuto il contrario, confermando la sussistenza del “mobbing”, ossia, una serie di atti o comportamenti vessatori illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.