Categoria: LAVORO E PREVIDENZA

LICENZIAMENTO: LA SUPREMA CORTE DICE NO

Citiamo un recente e interessante caso di licenziamento di un lavoratore. Il lavoratore aveva ottenuto dei permessi per assistere la sorella e la madre affette da handicap grave, ma la società datrice di lavoro, ritenendo che ne avesse abusato, lo aveva licenziato. Aveva infatti scoperto che, durante tali permessi, il lavoratore si era recato a fare la spesa e portato a casa della madre, si era recato allo sportello Postamat per dei prelievi, aveva anche incontrato un geometra incaricato di una perizia tecnica su un immobile della madre. Tali circostanze avevano fatto ritenere la società datrice di lavoro che il lavoratore avesse “abusato” dei permessi e avesse inoltre “mancato nell’accudimento delle persone con handicap”. Due validi motivi, questi, per procedere con il licenziamento!
Il caso è arrivato in Cassazione. La Suprema Corte ha ritenuto che giustamente la Corte d’Appello avesse ritenuto che le incombenze in cui era stato occupato il lavoratore in realtà attenevano a delle commissioni proprie delle due signore che Egli stava accudendo eche quindi, sulla base dell’istruttoria, nessun abuso fosse stato commesso dal lavoratore.
Secondo la Suprema Corte bene, infatti, aveva giudicato la Corte d’Appello, sulla base dell’istruttoria emersa, ritenendo che: “l’assistenza prevista dalla disposizione in esame e a cui sono finalizzati i permessi non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione , ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il predetto non sia in condizioni di compier autonomamente, dovendosi configurare l’abuso del diritto ove il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza, da intendersi in senso ampio, in favore del familiare”.

Avv. Gabriella CAMPA

Le ferie non godute possono essere sempre monetizzate?

Rientrati dalle vacanze estive? Periodo troppo breve perché il lavoro non consente di prendere qualche giorno in più? Se la risposta è purtroppo sì, forse dovete sapere che il godimento delle ferie è un diritto riconosciuto al lavoratore per potersi riprendere dallo stress lavorativo, ma che purtroppo è subordinato ad alcune regole che non consentono di far sempre quello che si vuole. E’ il caso, ad esempio, della monetizzazione delle ferie non fruite. E’ sempre possibile? Secondo il giudizio della Corte di Cassazione la risposta è no!

Spesso per ragioni proprie del lavoratore o per esigenze datoriali, il lavoratore non riesce ad usufruire di tutti i giorni previsti dal Contratto Collettivo Nazionale dei Lavoratori (CCNL) e si procede alla relativa monetizzazione. Tale circostanza nel tempo è stata oggetto di abusi e per il riconoscimento del relativo ammontare si è spesso dovuti ricorrere all’intervento del Giudice.

I CASI

Di recente, la Suprema Corte, interessandosi della vicenda, ha chiarito che effettivamente esiste la retribuzione dell’indennità per le ferie non godute. Si tratta di una somma che viene riconosciuta nel momento in cui il lavoratore non usufruisce delle ferie che gli spettano. E’ stato però fissato un principio generale: la monetizzazione non è automatica, ma è esclusa quando il datore di lavoro ”nell’ambito del suo potere di ‘stabilire il tempo di godimento’ offra il proprio adempimento (il godimento delle ferie) fissando adeguatamente questo tempo”.
La Cassazione, con la sentenza n. 15652/2018, ha ritenuto che non sorge alcuna obbligazione a carico del datore di lavoro per retribuire le ferie non godute se, avendo proposto al lavoratore, con congruo anticipo, di andare in ferie, Egli abbia voluto continuare a lavorare. In questo caso, non spetterebbe alcuna indennità per le ferie non godute.
Questa sentenza si è posta sulla stessa linea di una precedente pronuncia, la n. 2496/2018, nella quale si è affermato che l’indennità per le ferie non godute si debba addirittura avere anche nel caso in cui non esista alcuna norma del CCNL che la preveda. La stessa sentenza riporta però che se il datore di lavoro “dimostra di aver offerto un adeguato tempo per il godimento delle ferie, di cui il lavoratore non abbia usufruito” il lavoratore non ha diritto alla corresponsione dell’indennità di ferie non godute.
Se le due precedenti sentenze attenevano ad un rapporto di lavoro privatistico, con la sentenza n. 20091 del 30 luglio scorso, la Corte di Cassazione si è poi occupata di un analogo caso avvenuto nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e anche qui ribadisce che: “Il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore”.
Nel caso di specie, la Suprema Corte aveva pure indicato che l’elevato numero di giorni di ferie non goduti (246 giorni in dieci anni) escludevano di per sé esigenze di servizio o cause di forza maggiore, che avessero potuto dare adito alla mancata fruizione.

LE CONCLUSIONI

In sostanza, sia nell’ambito di un rapporto privatistico che nell’ambito del pubblico impiego, la Suprema Corte ritiene che le ferie, dovendo reintegrare il lavoratore dallo stress lavorativo, debbano essere usufruite e non possono essere “accantonate” per un ritorno economico, a discapito della propria salute, salvo i casi di oggettiva impossibilità che poi comportano come logica conseguenza la relativa monetizzazione.

Avv. Gabriella CAMPA

Mobbing: il datore di lavoro è sempre responsabile!

MobbingCon sentenza n. 74/2017 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in materia di mobbing. Lo ha fatto ampliando ulteriormente la fattispecie del “mobbing datoriale” ossia del mobbing posto in essere dal datore di lavoro, sebbene, nel caso in questione, le vessazioni fossero in realtà derivate dal comportamento dei colleghi. La Suprema Corte ha ritenuto, infatti, che anche il mancato intervento da parte del datore di lavoro, per dirimere una certa situazione lesiva per un proprio dipendente, può integrare la fattispecie del mobbing datoriale quando il datore è “rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo o delle condizioni ambientali che lo rendono possibili o le abbia addirittura determinate, considerato che anche l’aspetto umano fa parte dell’ambiente di lavoro nell’ambito del quale opera il dovere di protezione previsto dall’art. 2087 Codice Civile“.

E non solo! La Suprema Corte, con la sentenza in commento, è andata anche oltre, affermando che l’intento persecutorio può essere ravvisato anche in una serie di comportamenti che, presi singolarmente sono leciti, ma che in realtà nel loro insieme possono essere intesi come vessatori e contro il lavoratore, la sua salute e la sua dignità.

Era accaduto infatti che, oltre alle azioni persecutorie da parte dei colleghi, per le quali non erano stati adottati provvedimenti da parte del datore di lavoro, il lavoratore avesse lamentato di aver subito, in un breve lasso di tempo:

  1. un trasferimento da un reparto ad un altro;
  2. una richiesta di giustificazioni a causa dell’assenza dal lavoro;
  3. una contestazione disciplinare per il ritardo nell’invio del certificato medico;
  4. una revoca delle ferie;
  5. la negazione di permessi sindacali.

Comportamenti di per sé leciti, ma che nell’insieme evidenziavano delle vessazioni ed un disegno persecutorio anche da parte del datore di lavoro.

Il lavoratore aveva così adito il Tribunale e chiesto il risarcimento dei danni per l’insorta sindrome depressiva.

La società datrice di lavoro aveva motivato e giustificato come leciti i singoli comportamenti adottati nei confronti del dipendente.

La Suprema Corte, confermando le statuizioni dei precedenti Giudici, ha invece ritenuto il contrario, confermando la sussistenza del “mobbing”, ossia, una serie di atti o comportamenti vessatori illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Avv. Gabriella CAMPA

 

Sentenza favorevole per chi ha problemi nella riscossione del TFR

La riscossione del TFR può a volte non essere così semplice e veloce. Capita infatti che, per motivi di varia natura, l’interessato si ritrovi a dover combattere per ottenere la somma dovuta. Capita che il datore di lavoro si rifiuti di pagare il TFR e non sempre si riesce a risolvere il problema con un “decreto ingiuntivo“. Per poter ricorrere a questa veloce procedura occorre che al giudice siano portate “prove certe” che dimostrino e quantifichino con esattezza il credito dovuto al lavoratore. In caso contrario una causa è quasi sempre, ahimè, inevitabile.

Ecco però che, a riguardo, con la recentissima sentenza 2239/2017 la Suprema Corte ha risolto un problema piuttosto discusso nei Tribunali, ossia se la busta paga del lavoratore fa piena prova e quindi sulla base di essa si possa chiedere il decreto ingiuntivo, oppure, la bustapaga non è sufficiente e, per poter ottenere quanto in essa indicato, occorra promuovere un giudizio ordinario. In questo secondo caso, come detto, con l’allungamento dei tempi per ottenere quanto dovuto.

Era accaduto, infatti, che un lavoratore aveva chiesto un decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento del TFR dal datore di lavoro. La società si era opposta costituendosi in giudizio e affermando che non c’era alcuna prova delle competenze maturate dal lavoratore, quantunque tali voci fossero riportate nell’ultima busta paga, poiché la stessa risultava pari a zero. Infatti, il credito del dipendente era stato compensato dai danni che lo stesso aveva causato al datore di lavoro e per i quali era stato licenziato.

Sia in primo che in secondo grado i Giudici avevano dato ragione al dipendente ritenendo che la busta paga emessa dalla società avesse natura confessoria per la parte relativa alla esistenza ed entità delle competenze in essa indicate.

La Suprema Corte confermava in parte l’assunto ritenendo che effettivamente la busta paga è una prova piena dei dati in essa indicati, purché tali dati non siano contestati. Diversamente il Giudice deve valutare anche quei fatti portati in giudizio che sono diretti a contestare il credito del lavoratore.

Stabilisce infatti la Corte: “La busta paga, dunque, ha valore di piena prova circa le indicazioni in essa contenute solo quando sia chiara e non contraddittoria; diversamente, ove in essa risulti la indicazione di altri fatti tendenti ad estinguere gli effetti del credito del lavoratore riconosciuto nel documento (nella specie la indicazione di un controcredito del datore di lavoro per risarcimento del danno), essa è una fonte di prova soggetta alla libera valutazione del giudice, che dovrà estendersi al complesso dei fatti esposti nel documento“.