Categoria: DIRITTO DI FAMIGLIA

Chi paga il mutuo dopo il divorzio?

Chi paga il mutuo quando, a seguito di un divorzio, la casa coniugale resta a uno solo dei due coniugi?
Come sempre la risposta non è mai univoca e dipende da caso a caso. Particolarmente interessante, a tal proposito, è la recente sentenza 1072/2018 della Corte di Cassazione.

IL CASO

Il marito aveva chiesto alla moglie la restituzione del 50% delle rate del mutuo che era stato costretto a pagare anche dopo la separazione e il divorzio per l’acquisto della casa coniugale.
Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione al marito ritenendo che la moglie dovesse restituire la somma come richiesta.
Impugnata la sentenza, la Corte d’Appello aveva invece ritenuto di dover dare ragione alla moglie. Secondo il giudice di secondo grado, infatti, il marito dopo il divorzio aveva continuato a
pagare il mutuo per sua volontà, in opzione al versamento del consueto assegno di mantenimento.
Il giudice riteneva tale circostanza una sorta di “accollo interno”, ossia un accordo tra moglie e marito che, di fatto, impediva la restituzione delle rate pagate.
Il marito adiva pertanto la Corte di Cassazione.

LA SENTENZA FINALE

Con sentenza n.1072/2018 la suprema Corte di Cassazione evidenziava che negli atti del processo non esisteva alcun documento dal quale si potesse evincere la volontà del marito di pagare il mutuo.
La Corte osservava che l’accollo per intero dell’obbligazione avrebbe dovuto essere comprovato “da elementi documentali (dichiarazioni dell’uomo, verbali delle udienze di separazione e divorzio) eventualmente avvalorati (anziché, come nel caso, palesemente smentiti) dal successivo comportamento processuale delle parti”.
Pertanto, non essendoci alcuna prova del fatto che il marito volesse accollarsi le rate del mutuo, la signora veniva definitivamente condannata alla restituzione del 50% delle rate pagate.

Avv. Gabriella CAMPA

Diritti del coniuge di fatto e residenza

Il “coniuge di fatto” per avere uguali diritti del coniuge deve obbligatoriamente avere la stessa residenza?
E’ questo il quesito sottoposto alla Suprema Corte.
Il caso riguardava la richiesta risarcitoria avanzata dalla signora per la morte del “coniuge di fatto”.
Nei primi due gradi di giudizio, i giudici avevano rigettato la richiesta, perché agli atti era risultato che la coppia non aveva avuto la stessa residenza, desumendo, di conseguenza, che non poteva esserci stata “convivenza”. Questo malgrado indizi altrettanto importanti avessero evidenziato una comunione di obblighi e di assistenza morale e materiale.
La Corte con sentenza n. 9178/2018 ha ribadito che la cosiddetta “famiglia di fatto” è quella in cui sussiste una “spontanea assunzione di diritti ed obblighi”.
In caso di sinistro perché al “coniuge di fatto” venga riconosciuto il diritto al risarcimento morale e materiale, occorre provare che “la relazione è caratterizzata da una tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale”. Prosegue ancora la Cassazione “se la coabitazione è stata finora indicata come un indice rilevante e ricorrente dell’esistenza di una famiglia di fatto, individuando l’esistenza di una casa comune all’interno della quale si svolge il programma di vita comune, non è stato peraltro ritenuto un elemento imprescindibile, la cui mancanza, di per sé, fosse determinante al fine di escludere la configurabilità della convivenza”.
In sostanza la convivenza è solo un indizio di una eventuale convivenza di fatto e la mancanza non la esclude, dovendo valutare anche altri fattori.
La Legge n. 76/2016, che disciplina la convivenza di fatto, ha confermato il principio stabilito dalla Suprema Corte definendo conviventi: “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e da reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo, e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco”.
Nessuna indicazione viene fornita sulla coabitazione.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha ritenuto di coniare tale principio: “Si ha convivenza more uxorio, rilevante ai fini della risarcibilità del danno subito da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale”.
Se la coabitazione sicuramente facilita la prova dell’unione di fatto, l’assenza di essa non la esclude, dovendo provare a mezzo altri indizi una reciproca e volontaria assistenza morale e materiale, che evidenzi l’esistenza di una “famiglia di fatto”.

Avv. Gabriella CAMPA

QUANDO LA CONVIVENZA FINISCE…

Capita spesso durante la convivenza che vengano sopportate delle spese eccessive da parte di un convivente a favore della famiglia. Se la convivenza finisce, come vengono ripartite le spese sostenute? Qui un caso interessante.

IL CASO

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte era accaduto che due giovani erano andati a convivere nella casa di proprietà di lei, ristrutturata ed arredata con i soldi di lui, per un totale di circa cento milioni delle vecchie lire. Dopo un anno la convivenza era finita, anche se era nato un figlio e lui chiedeva la restituzione della somma a suo tempo investita.

Il Tribunale aveva dato torto a lui, mentre la Corte d’Appello, come spesso capita, aveva dato torto a lei. La faccenda arrivava in Cassazione.

LA DECISIONE

La Suprema Corte, con sentenza n. 21479/2018, ha ritenuto legittima la richiesta di lui, affermando che la somma spesa fosse eccessiva e non potesse considerarsi come concorrente ai bisogni della famiglia; inoltre, continua la Cassazione, “se lei decidesse di vendere la casa, otterrebbe un vantaggio economico grazie alla ristrutturazione e all’arredamento gravati su lui, quindi lei avrebbe un illegittimo arricchimento a danno di lui che, invece, avrebbe un illegittimo impoverimento dovuto al fatto di aver investito una somma cospicua per i bisogni della famiglia in relazione anche ai redditi a suo tempo avuti, senza tuttavia ricavarne alcun vantaggio”.

Avv. Gabriella CAMPA

Assegno di Mantenimento: giusta la sentenza delle Sezioni Unite

E’ finalmente arrivata la tanto attesa sentenza delle Sezioni Unite sull’assegno di mantenimento. Speriamo ora che la stessa ponga fine alla diatriba che da sempre esiste sull’argomento.
Una discussione accentuatasi in particolare nell’ultimo anno dopo che la sentenza n.15504 del 2017, di cui abbiamo già parlato, aveva stabilito che l’assegno di mantenimento dovesse essere “assistenziale”, ossia dovesse stabilirsi in favore del coniuge senza mezzi e possibilità di potersi mantenere. Secondo la sentenza del 2017, il coniuge titolare di un reddito, quantunque non sufficiente a conservare lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio, non aveva diritto a nulla.
Tale sentenza aveva dato vita ad un orientamento diverso da quello seguito fino ad allora e che poneva l’attenzione soprattutto al mantenimento del tenore di vita avuto durante il matrimonio da parte del coniuge più debole.
Ora le Sezioni Unite analizzano entrambi gli orientamenti.
Il presupposto ineccepibile è dato dal fatto che con il divorzio si ha un impoverimento di entrambi i coniugi.
Per cercare di evitare uno squilibrio ingiusto che può determinarsi a causa del divorzio, le Sezioni Unite ritengono di dover valutare i mezzi e la capacità del coniuge debole di poterseli procurare, tenendo conto della durata del matrimonio e dello squilibrio esistente tra i coniugi, sia come reddito che come realizzazione professionale.
L’aspetto importante su cui occorre porre l’attenzione sono le rinunce o le scelte diverse fatte dal coniuge debole in funzione della famiglia.
Questo significa che occorre tenere in considerazione le scelte fatte dal coniuge per la famiglia ed i bisogni della famiglia (per esempio per crescere i figli), scelte da cui non si può tornare indietro, ma che hanno influito sulle possibilità di carriera e di reddito del coniuge debole e che hanno contributo alla formazione del patrimonio di ciascun coniuge o di quello comune.
Quindi, la determinazione dell’assegno deve considerare innanzitutto se il coniuge debole ha i mezzi e le possibilità, ma anche se tali mezzi sono adeguati a seguito del divorzio in considerazione delle scelte fatte in funzione della famiglia e se queste scelte hanno prodotto effetti vantaggiosi per uno dei coniugi.
Per le Sezioni Unite l’assegno di mantenimento ha “una funzione equilibratrice […], non è finalizzato alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma soltanto al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla realizzazione della situazione comparativa attuale”.
I principi stabiliti dalle Sezioni Unite sembrano alquanto giusti. La famiglia comporta delle scelte che spesso contrastano con la professione e la carriera. Per conservare l’unità familiare i coniugi sono spesso costretti a delle rinunce. Quando la famiglia viene meno, non è giusto che tali scelte restino a carico esclusivo del coniuge che le ha “subite”.

Avv. Gabriella CAMPA

Fratello e sorella si separano solo per giustificati motivi

affidamento dei figliCon la sentenza n. 12957/2018, la Corte di Cassazione è stata interessata da un’importante questione relativa all’affidamento dei figli.

IL CASO

Nel corso della separazione dei coniugi, i figli venivano divisi ed affidati uno ai servizi sociali con collocazione presso il padre e l’altro alla madre.

Nell’analizzare le eccezioni portate alla sua attenzione, la Suprema Corte evidenziava innanzitutto il mancato ascolto della minore infradodicenne nei precedenti gradi di giudizio. L’ascolto, infatti, è obbligatorio perché evidenzia una partecipazione attiva del minore nel procedimento che lo riguarda e “il giudice deve motivare le ragioni per cui ritiene il minore infradodicenne incapace di discernimento se decide di non procedere”.

Ma non basta solo ascoltare.  Occorre infatti anche che il  giudice valuti ed analizzi le dichiarazioni rese dallo stesso minore, motivando, in maniera particolareggiata, se decide di non condividerle. Nel caso all’attenzione della Suprema Corte, la ragazzina aveva manifestato la volontà di vivere con la sorella e la madre e lo stesso CTU aveva evidenziato nella consulenza il forte rapporto affettivo e di reciproco sostegno.

Nonostante questo, la ragazzina era stata affidata ai servizi sociali con collocazione presso il padre, mentre la sorella continuava a vivere con la madre.

LA DECISIONE

La Cassazione proprio sulla scorta del principio innanzi evidenziato, ha così stabilito: “…la necessità di preservare nelle separazioni la conservazione del rapporto tra fratelli e sorelle e di non adottare provvedimenti di affidamento che comportino la loro separazione se non per ragioni ineludibili e, comunque, sulla base di una motivazione rigorosa che evidenzi il contrario interesse del minore alla convivenza”.

La Cassazione afferma ancora che la conflittualità tra i due genitori non giustifica l’affidamento della minore lontana dalla sorella.

Ritiene la Cassazione che, in questi casi, occorre una “verifica che, partendo dall’ascolto della minore prenda in esame il contesto dei due nuclei familiari, l’idoneità genitoriale e la esigenza primaria della conservazione del legame e della condivisione di vita con la sorella”, prima di procedere alla separazione delle stesse.

Avv. Gabriella CAMPA

Casa coniugale: l’assegnazione non è per sempre!

Uno degli annosi problemi connessi alla separazione è quello attinente all’assegnazione della casa coniugale e della permanenza del diritto di abitazione della stessa al coniuge che pur non avendone la proprietà risulta collocatario dei figli.
Ma tale assegnazione fino a quanto dura?

IL CASO

Nel caso sottoposto alla Suprema Corte, il marito proprietario della casa aveva chiesto la revoca dell’assegnazione dell’immobile alla moglie.
Agli atti risultava che la casa era stata assegnata alla ex-moglie in ragione della convivenza con la madre della figlia non indipendente economicamente. Al momento della decisione della Corte d’Appello, la figlia aveva deciso di inserirsi nel mondo del lavoro e, svolgendo in effetti una pluralità di occupazioni, maturava un’autonoma organizzazione di vita e capacità di mantenimento rispetto ai genitori. Proprio sulla base di tali presupposti la Corte d’Appello emetteva la sentenza di accoglimento, ossia riteneva che non sussistevano più i presupposti per l’assegnazione della casa alla madre a tutela della prole e di conseguenza revocava il provvedimento.

LA DECISIONE

La Corte di Cassazione, con provvedimento n. 1546/2018, interessata della vicenda a seguito dell’impugnazione della sentenza da parte della moglie, ha ritenuto di condividere in pieno quanto stabilito dalla Corte d’Appello ed ha perciò confermato la sentenza di revoca dell’assegnazione della casa coniugale alla madre affidataria dei figli, non sussistendo più “i presupposti per l’assegnazione della casa alla madre a tutela della prole”.

L’assegnazione della casa coniugale non è per sempre!

Avv. Gabriella CAMPA

Amministratore di sostegno anche per chi gioca troppo!

Il vizio del gioco si è oramai diffuso in tutte le fasce di età, e si sente sempre più spesso che è la causa della dilapidazione di interi patrimoni.
Con una recente sentenza del 7 marzo scorso, la Suprema Corte è intervenuta, ritenendo legittima la nomina di un amministratore di sostegno nei confronti di chi accumula importanti debiti al gioco.

IL FATTO

Una signora aveva contratto un debito di oltre 34.000 euro nei confronti di un bar. La metà della somma era dovuta a gratta&vinci non pagati, aveva contratto debiti nei confronti della figlia per altri 40.000 euro, e aveva altri debiti condominiali. La signora aveva anche proceduto a cedere un quinto della pensione che si aggirava intorno ai 1.600 euro.
In giudizio era stata provata la prodigalità della signora nello spendere e la figlia aveva chiesto ed ottenuto la nomina di un amministratore di sostegno.
La signora impugnava innanzi alla Cassazione il provvedimento.
La Suprema Corte interessata dalla vicenda confermava la sentenza impugnata.

LA DECISIONE

Ed infatti, la Cassazione con sentenza n. 5492/2018 ha ritenuto che l’Amministratore di sostegno non debba per forza essere nominato soltanto per fatti derivanti da malattia o infermità. Anche la prodigalità, intesa come comportamento abituale che si manifesta nella “larghezza nello spendere, nel regalare o nel rischiare eccessivamente rispetto alle proprie condizioni socio-economiche e al valore oggettivamente attribuibile al denaro” ai sensi dell’art. 415 c.c., quando si traduca in atteggiamenti lucidi, espressione di libera scelta di vita, purché sia ricollegabile a motivi futili, configura un’autonoma causa di inabilitazione.
Seguendo un orientamento consolidato, la Suprema Corte ha infatti previsto che: “può adottarsi la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno, nell’interesse del beneficiario (interesse reale e concreto, inerente la persona e/o il suo patrimonio), anche in presenza dei presupposti di interdizione o di inabilitazione e dunque anche quando ricorra una condizione di prodigalità, come nel caso in esame“.

Con questa sentenza, non vengono posti limiti alla libertà di ciascuno di spendere i propri soldi, ma precisando che la prodigalità si ha quando le cifre spese per futili motivi sono molto superiori alle proprie possibilità economiche, si ritiene che sia giusto porre dei limiti chiedendo al giudice la nomina dell’Amministratore di sostegno che possa così impedire lo sperpero inutile di denaro.

Avv. Gabriella CAMPA

Punita la madre che ostacola il rapporto tra padre e figlio

Con un recente decreto del 07 gennaio 2018, il Tribunale di Milano ha disposto una “sanzione punitiva” nei confronti della madre che ostacolava il rapporto tra il padre ed il figlio.

IL FATTO

Era accaduto che il padre si fosse rivolto al Tribunale per ottenere un ampliamento dei giorni di visita e almeno un pernottamento infrasettimanale del bambino presso di sé.

Disposta CTU, era emersa l’indubbia difficoltà dei genitori a trovare degli accordi nell’interesse del minore e, in particolare, un comportamento della madre particolarmente ostile verso il padre e per nulla incline a favorire un rapporto padre-figlio.

Tali circostanze incidevano non poco sul bambino tant’è che, come appurato dal Consulente del Tribunale, “al cospetto del padre escludeva la madre e tutti i familiari materni dalla rappresentazione grafica della sua famiglia e parimenti, al cospetto della madre, escludeva il padre e tutti i familiari paterni. Appariva rassegnato ad una condizione di incomunicabilità tra i due mondi e la stessa prospettiva di un avvicinamento o di un incontro tra i genitori, seppure fosse una condizione intimamente anelata, era per lui ragione di preoccupazione, per il timore che potesse provocare nuovi motivi di astio o di scontro, condizione che provocava nel bambino forti sensi di colpa nella consapevolezza di essere al centro della disputa genitoriale”.

LA DECISIONE

Dato atto della totale assenza di collaborazione della madre del bambino a favorire un rapporto del minore con il padre, ed essendo emerso addirittura un comportamento ostruzionistico della stessa, il Tribunale procedeva “all’ammonimento ex ufficio (ex art. 709 ter c.p.c.) della resistente invitandola a cessare immediatamente ogni condotta pregiudizievole ed ostativa connessa alla frapposizione dei descritti ostacoli nella frequentazione tra padre e figlio. Si ritiene che, quale ulteriore sanzione punitiva che possa fungere da deterrente ai comportamenti ostativi ed ostacolanti la frequentazione tra padre e figlio e il legittimo esercizio del diritto di visita paterno deve prevedersi, ex art. 614 bis c.p.c., che la resistente sia condannata a corrispondere al resistente la somma di Euro 30,00 per ogni volta in cui il minore sia costretto a passare dall’abitazione materna per recuperare il materiale necessario per la scuola ovvero per l’attività sportiva e che sia altresì condannata al pagamento della somma di Euro 50,00 ogni volta in cui (in assenza di ragione oggettiva, ad esempio malattia certificata dal medico/pediatra di base del bambino) non sia consentito al padre di frequentare il minore nella giornata (con pernottamento) del mercoledì”.

Questo Decreto è innovativo per la previsione della “sanzione punitiva”, ma come spesso si dice.. a mali estremi estremi rimedi!

Avv. Gabriella CAMPA

Anche nelle separazioni il mantenimento del tenore di vita non è dovuto!

tenore di vita

La Corte d’Appello di Roma, con ordinanza n. 3019/2017, sembra voler aderire, anche nelle separazioni, all’orientamento oramai consolidato in sede di divorzio che ha comportato l’abbandono del principio della conservazione dello stesso tenore di vita che si aveva in costanza di matrimonio da parte del coniuge più debole.

IL FATTO

Una coppia decide di separarsi e, non trovando un accordo per la separazione, inizia il giudizio. Nel corso dell’udienza presidenziale vengono concessi provvedimenti temporanei ed urgenti. La moglie ottiene un assegno di mantenimento di 1.400,00 euro mensili.
Il marito impugna il provvedimento innanzi alla Corte d’Appello. Analizzata la situazione dei coniugi, la Corte d’Appello evidenzia che nella comparazione della situazione economica di ciascun coniuge si sono omessi di considerare rilevanti elementi della loro vita personale.
Entrambi i coniugi erano realizzati professionalmente. La moglie, grazie alla propria attività, aveva costruito un patrimonio immobiliare, essendo proprietaria della casa coniugale e di altri due immobili ceduti in proprietà alle figlie.
Dice quindi la Corte: “Il marito è vero che era titolare di un’attività professionale produttiva di redditi significativamente superiori, anche potenzialmente, rispetto a quelli ricavabili dalla coniuge con la propria attività commerciale. Diversamente dalla coniuge egli non è titolare di un proprio patrimonio immobiliare e, uscito dalla casa familiare di proprietà della coniuge, ha reperito una casa in locazione; tali presupposti inducono a ritenere quest’ultima ai fini della decisione in via provvisoria e urgente, del tutto in grado, per la capacità di lavoro, di reddito e di patrimonio, dimostrata e conseguita già prima del matrimonio e successivamente mantenuta, di provvedere con i propri mezzi a se stessa”.

CONCLUDENDO

In sostanza, l’assegno di mantenimento anche nella separazione deve avere valenza assistenziale, di aiuto al coniuge debole in favore del quale viene riconosciuto. L’assegno non può compensare un aspettativa economica quale poteva essere maturata a seguito del matrimonio e della comunanza dei redditi dei coniugi.

Avv. Gabriella CAMPA

Assegno di mantenimento: si estingue con la morte del coniuge?

assegno di mantenimento

In materia di diritto di famiglia, una delle domande che i clienti mi rivolgono più spesso è: “l’assegno di mantenimento si estingue con la morte del coniuge obbligato?
Per rispondere occorre distinguere i casi di separazione da quelli di divorzio.

Nei casi di separazione senza addebito, il Codice Civile prevede che il coniuge separato  abbia gli stessi diritti del coniuge non separato. Pertanto ne diventa erede o successore legittimo.

Nei casi di separazione con addebito, il coniuge separato ha diritto ad un assegno vitalizio se al momento dell’apertura della successione il coniuge deceduto gli corrispondeva gli alimenti.

Nei casi invece in cui sia intervenuta una sentenza di divorzio, essendo sciolto il matrimonio, il coniuge divorziato non può essere erede o successore legittimo del coniuge defunto. Tuttavia, se questi godeva già di un assegno divorzile, il Tribunale può riconoscergli un assegno periodico a carico dell’eredità. Generalmente ciò si verifica quando il coniuge versa in stato di bisogno. Tale assegno è quantificato dal Giudice considerando l’importo dell’assegno divorzile, dell’entità del bisogno, dell’eventuale presenza della pensione di reversibilità, della consistenza delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche.

L’ex coniuge superstite e gli eredi possono concordare che la corresponsione dell’assegno avvenga in unica soluzione.

Il diritto all’assegno si estingue se il beneficiario passa a nuove nozze o viene meno il suo stato di bisogno. Qualora, per qualsiasi motivo, il beneficiario dopo l’estinzione venga a trovarsi nuovamente in stato di bisogno, l’assegno può essere nuovamente attribuito.

Avv. Gabriella CAMPA