Mese: Febbraio 2017

I redditi del coniuge devono essere noti!

Un problema che si riscontra spesso nel corso della separazione è quello di conoscere la documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale del coniuge. A riguardo è interessante una recente sentenza del TAR per la Puglia, sezione di Bari.

Era accaduto che, in pendenza della causa di separazione, la signora avesse chiesto all’Agenzia delle Entrate di conoscere la documentazione fiscale reddituale e patrimoniale del marito, ritenendo suo diritto sapere quanto il coniuge avesse accantonato in risparmi. La signora lamentava che il marito si fosse sempre disinteressato delle spese della famiglia, ritenendo pertanto che quei risparmi accantonati non potessero appartenere esclusivamente al coniuge.

L’agenzia delle Entrate respingeva tale richiesta!

Il TAR è stato però di contrario avviso ed ha dato ragione alla signora ritenendo: “il diritto del coniuge, anche in pendenza del giudizio di separazione o divorzio, di accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale dell’altro coniuge, al fine di difendere il proprio interesse giuridico, attuale e concreto, la cui necessità di tutela è reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata“.

Il TAR ha inffatti ritenuto che le modifiche apportate alla Legge n. 241/1990 dalla Legge n. 15 abbiano in qualche modo modificato il diritto di accesso agli atti amministrativi, ritenendo tale diritto primario rispetto a quello di riservatezza. Sottolinea il TAR: “Dalla documentazione versata in atti si evince la presenza di due figli minori. Ne consegue che la tutela degli interessi economici e della serenità dell’assetto familiare, soprattutto nei riguardi dei figli minori delle parti in causa, prevale o quantomeno deve essere contemperata con il diritto alla riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso a tali documenti “sensibili” del coniuge“. Considerando tuttavia che l’art. 5 del DM 603/1996 esclude dall’accesso agli atti la “documentazione finanziaria, economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi, imprese e associazioni comunque acquisita ai fini dell’attività amministrativa“, il TAR ottempera tale norma riconoscendo l’accesso agli atti alla ricorrente, ma nella sola visione. Dispone infatti: “la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa degli interessi giuridicamente rilevanti propri di coloro che ne fanno motivata richiesta“.

 

Sentenza favorevole per chi ha problemi nella riscossione del TFR

La riscossione del TFR può a volte non essere così semplice e veloce. Capita infatti che, per motivi di varia natura, l’interessato si ritrovi a dover combattere per ottenere la somma dovuta. Capita che il datore di lavoro si rifiuti di pagare il TFR e non sempre si riesce a risolvere il problema con un “decreto ingiuntivo“. Per poter ricorrere a questa veloce procedura occorre che al giudice siano portate “prove certe” che dimostrino e quantifichino con esattezza il credito dovuto al lavoratore. In caso contrario una causa è quasi sempre, ahimè, inevitabile.

Ecco però che, a riguardo, con la recentissima sentenza 2239/2017 la Suprema Corte ha risolto un problema piuttosto discusso nei Tribunali, ossia se la busta paga del lavoratore fa piena prova e quindi sulla base di essa si possa chiedere il decreto ingiuntivo, oppure, la bustapaga non è sufficiente e, per poter ottenere quanto in essa indicato, occorra promuovere un giudizio ordinario. In questo secondo caso, come detto, con l’allungamento dei tempi per ottenere quanto dovuto.

Era accaduto, infatti, che un lavoratore aveva chiesto un decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento del TFR dal datore di lavoro. La società si era opposta costituendosi in giudizio e affermando che non c’era alcuna prova delle competenze maturate dal lavoratore, quantunque tali voci fossero riportate nell’ultima busta paga, poiché la stessa risultava pari a zero. Infatti, il credito del dipendente era stato compensato dai danni che lo stesso aveva causato al datore di lavoro e per i quali era stato licenziato.

Sia in primo che in secondo grado i Giudici avevano dato ragione al dipendente ritenendo che la busta paga emessa dalla società avesse natura confessoria per la parte relativa alla esistenza ed entità delle competenze in essa indicate.

La Suprema Corte confermava in parte l’assunto ritenendo che effettivamente la busta paga è una prova piena dei dati in essa indicati, purché tali dati non siano contestati. Diversamente il Giudice deve valutare anche quei fatti portati in giudizio che sono diretti a contestare il credito del lavoratore.

Stabilisce infatti la Corte: “La busta paga, dunque, ha valore di piena prova circa le indicazioni in essa contenute solo quando sia chiara e non contraddittoria; diversamente, ove in essa risulti la indicazione di altri fatti tendenti ad estinguere gli effetti del credito del lavoratore riconosciuto nel documento (nella specie la indicazione di un controcredito del datore di lavoro per risarcimento del danno), essa è una fonte di prova soggetta alla libera valutazione del giudice, che dovrà estendersi al complesso dei fatti esposti nel documento“.